Com’è d’uso a conclusione della festa, tutti attendevano lo svelamento della maschera.
Occhi curiosi sotto palpebre abbassate con aristocratica indolenza sbirciavano nell’angolo lontano, si, proprio quello dove il domino nero dando le spalle al salone, pareva perduto ad osservare il quieto sciabordio delle onde sulle rive del canale.
Ed era stata festa grande, che munifico era l’ospite, pronto a profondere con la noncuranza del rango, del censo e dell’educazione, doni e stupori ai convitati: non eran mancate musiche soavi a ondeggiare tra i riccioli attorti come serpi su spalle imperiali, né cibi, e vini, e frutta come se Cerere, ospite celata, con la sua cornucopia ebbra danzasse tra i broccati.
Ma com’è d’uso a conclusione della festa, tutti attendevano lo svelamento della maschera.
Indagatori, imperturbabilmente curiosi, pigramente scettici, occhi seguivano il movimento ondeggiante del domino nero, del volto alieno coperto da una maschera di specchio. Una maschera fatta con tanta arte che il volto che ognuno vi vedeva riflesso, nel movimento ondeggiante delle danze, era esattamente il proprio, come se ciascuno danzasse perdutamente con un sé stesso dal passo vivace.
Mormorii dietro i ventagli avevano commentato, in mille e mille lingue differenti, la strana maschera che imitava il proprio compagno, e si muoveva con la lenta grazia ondeggiante di un serpente che camminasse sulle proprie spire. Brevi sospiri a ricordare la favola della morte che aveva danzato tutta la notte con il principe d’un paese lontano, prima di stringerlo tra le braccia un’ultima, e quanto ultima, volta.
E quindi, com’è d’uso a conclusione della festa, tutti attendevano lo svelamento della maschera.
Il padrone di casa, primo tra i primi per censo, rango ed educazione, si avvicinò al domino, che scosso dalla brezza leggera e salmastra del canale, sostava, le mani sul ferro del davanzale, a guardare il sole tingere di porpora le nuvole sull’isola del santo e del Drago, e con voce cortese chiese all’ospite di svelarsi, perché, com’è d’uso a conclusione della festa, la maschera deve cadere.
Ah quel volto. L’ ovale perfetto appena segnato d’arroganza nella mandibola, la pelle ben tesa sugli zigomi esotici, e occhi colmi di fulgori trattenuti.
Ah quelle labbra, curvate nel più dolcemente gelido dei sorrisi, tese, come se aprirsi maggiormente significasse spaccare la pelle e trasformare in sangue e carne e tendini esposti quel perfetto, dolcissimo, orribile sorriso.
Certo, com’è d’uso a conclusione della festa, tutti attendevano lo svelamento della maschera.
Fosse stata Morte, avrebbe sorpreso e inorridito meno, di quel sorriso così teneramente immoto, di quegli occhi limpidi che celavano lacrime cocenti. Fosse stata Morte, non avrebbe avuto quell’inflessione perfettamente educata, segno di rango, censo ed educazione: “Sorrido dei vostri furori, delle rabbie che chiamate disperazione. Sorrido delle vostre spade e dei giuramenti, e del velenoso elegante riso con il quale celate la noia e l’abitudine. Non vi è fuoco nelle vostre rabbie, né tenerezza nei vostri abbandoni. La vostra disperazione non conosce disciplina.”
Così dicendo allargò lenta le braccia, ali d’angelo caduto le pieghe del domino, e reggendo la maschera tra le dita sottili, cadde, infinitamente, perdutamente, dolcemente, finchè le acque del canale non si chiusero sul disciplinato sorriso della sua desolazione.
Ma mai più, in quella casa, si attese la conclusione della festa per lo svelamento della maschera.
Nessun commento:
Posta un commento