Sentiva il suo respiro attraverso la stoffa.
Dannazione, la tela attutiva quello che doveva essere il suo profumo leggero di fiori d’estate: cappuccio maledetto che impediva di catturare quelle labbra di cui indovinava la forma e possederle con la voracità di un mostro.
Sembrava una vecchia juta, i peli della stoffa erano rigidi contro la lingua che tentava di insinuarsi in quella bocca offerta, impudica.
Legati tutti e due, abbandonati al desiderio voyeuristico di qualcuno che nella stanza si muoveva cauto, torturatore del desiderio.
L’idea che l’alieno la stesse toccando, che si impossessasse con mani avide di quelle forme che sentiva premute contro il petto faceva dilatare una rabbia sorda, fino a far rombare il sangue nelle tempie, tanto da spingerlo ad affondare in un morso la stretta dei denti contro la tela.
Era sua, soltanto sua e saperla inerme, legata e domata nella tela e nelle corde accentuava l’eccitazione con la quale brancolava verso quel corpo vibrante, arcuando la schiena e spingendo le reni contro i fianchi delicati in una simulazione di possesso.
Sentiva nelle orecchie il rumore del traffico, dovevano esserci finestre aperte sulla piazza dalle quali saliva a tratti stridulo il richiamo di uno dei taxi di Montmartre: avrebbe potuto gridare e farsi liberare, porre fine al tormento. Ma come staccarsi da quella bocca che inumidiva la tela e si faceva possedere con la dolce sottomissione di un fiore.
Respiro corto, spezzato da un batticuore: lei tremava.
Ne percepiva la tensione attraverso la stoffa, riverberata nei fianchi premuti contro i suoi con un desiderio esplicitato nel dondolio lieve d’invito: lo voleva.
Il sognatore posò lo strumento con delicatezza, capovolto nel bicchiere e fece un passo indietro, annuendo nel silenzio della stanza.
I due si stavano levando lentamente i cappucci di tela bianca, e si scoprì a sorridere del loro sguardo attonito, di quel riconoscersi animalesco nell’odore che li rendeva improvvisamente simili.
L’ultimo raggio di sole faceva brillare come un topazio lattiginoso il pastis nella caraffa sul tavolo, appannata di freschezza, quasi un semaforo di refrigerio nella stanza così luminosa da stancare gli occhi.
I due se ne andarono, prelevando con un ringraziamento la busta del compenso per aver esibito quella passione mercenaria agli occhi disincantati e ironici del sognatore.
Il sognatore si sporse un poco dalla finestra, poggiando i gomiti incrociati sul davanzale per guardare in basso, lungo la strada affollata di passanti, i due si baciavano con abbandono animalesco, come per dissetarsi uno della bocca dell’altra dopo la lunga attesa.
Magritte sorrise, e tornando nella stanza, coprì la tela con un panno bianco.
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