nebbie

sabato 16 luglio 2011

Capri Bianche

Quando il signor Augusto occupò con valige e cartoni l’androne comune, segno evidente di un trasloco non desiderato, chiaramente espresso dalla faccia scura e dai modi bruschi con i quali si muoveva tra le scatole ed i pacchi, l’intero condominio tirò un sospiro di sollievo corale, dal ragionier Nicolini del secondo piano per arrivare all’attico.
Le liti tra i coniugi Biasi avevano raggiunto negli ultimi tempi sonorità epocali, da conflitto medioevale: partivano in sordina verso le sette e mezza della sera con qualche porta sbattuta per arrivare in un paio d’ore a sequele di insulti che vibravano lungo la tromba delle scale e rendevano impossibile il mattino dopo, incrociando i due urlatori, mantenere l’atteggiamento indifferente di chi non ha sentito nulla; di fatto era impossibile non ascoltare la varietà, l’originalità e la profondità di sfumature dei reciproci commenti.
Rimasta sola, la signora Linda iniziò lentamente a rifiorire, perdendo l’aria vagamente abbattuta che la rendeva sciatta, e ritrovando chiaramente il gusto della cura di sé stessa.
Doveva aver passato la quarantina, e indossava ogni mattina il trucco come un vestito da guerra che esaltava il lucente splendore dei lunghi occhi scuri da gitana, mentre andava al lavoro – una tintoria del centro – con l’aria di chi finalmente libera sta per incontrare l’uomo della sua vita e vuole piacergli.
Camminava un poco rigida, forse anni di stirature avevano reso la schiena meno elastica, accompagnata dal fumo delle Capri Bianche che portava alla bocca con il gesto un poco teatrale delle dive d’altri tempi, e quell’attitudine di placida attesa sicura che me la rendeva simpatica.
La incontravo ogni mattina per il sacro rito dell’acquisto del pacchetto, probabilmente avevamo gli stessi orari.
Nel corso degli anni la signora Linda continuò nella routine giornaliera: usciva di casa, comprava le Capri Bianche e si incamminava verso la sua tintoria, ma si scorgeva in lei il lento afflosciarsi delle spalle e l’incertezza nel guizzo degli occhi, come se stesse lentamente arrendendosi al fatto che non ci sarebbe stato un principe azzurro a sorridere al tocco leggero della cipria o allo sventolio di ragazza delle sue lunghe sciarpe di seta.
Fino al giorno in cui li incontrai insieme.
Era successo il miracolo, e un destino gentile l’aveva fatta incontrare con il suo nuovo compagno: mi incantai a guardarli camminare davanti a me uno a fianco all’altra, fermandosi a momenti per scambiarsi qualche sguardo e qualche carezza.
Lei aveva ripreso il passo scattante e gli occhi lucenti di qualche anno prima, fiorendo in sorrisi pacificati che la rendevano quasi bella, e fumava le stesse Capri Bianche con il piglio gioioso di chi beve con gusto alla coppa dei piaceri; non fumava più con il gesto meccanico della disillusione, ma con l’aria di chi goda del sapore sulla lingua del tabacco biondo.
Lui le camminava a fianco disinvolto, fermandosi a guardare con lei le stesse vetrine o cercando con lo sguardo castano qualcosa che lo attirasse maggiormente, badando attentamente a non allontanarsi troppo da lei. Palesemente più giovane della sua compagna, non sembrava dar peso alla differenza d’età o di condizione, come se quello che li univa fosse il legittimo legame orgoglioso di una coppia consolidata.

Furono senza dubbio le Capri Bianche: il vizio uccide e la signora Linda sparì improvvisamente, sapete come vanno le cose in un condominio dove ci si incontra senza conoscersi mai; la sua scomparsa passò del tutto inosservata, se non per qualche pettegolezzo addolorato che le più anziane si scambiavano scuotendo la testa mentre stendevano i panni sul terrazzo comune.
Quando la portarono all’ospedale incrociai per caso la barella: era diventata così piccola e pallida da non poterla riconoscere, unica cosa viva in quel pallore dal respiro raschiante i grandi occhi arabi che avevano ancora un piccolo fuoco acceso nel fondo della pupilla.
Di lui nessuna traccia, non lo vidi neppure al funerale dove per forza di buona abitudine feci atto di presenza, detestando ogni istante in cui l’odore sfatto delle corone di fiori mi ricordava che prima o poi tutti soccombiamo al rito cerimoniale in cui non siamo veramente presenti.
Ovviamente accesi la sigaretta una volta uscita dalla claustrofobia mentale del cimitero.

Lo trovarono qualche settimana dopo, in mezzo a una stecca devastata di Capri Bianche che aveva voluto probabilmente punire accanendosi sui pacchetti chiusi fino a lacerarli, e strappando i cilindretti di carta per spargere ovunque il contenuto in un delirio di disperata rabbia solitaria: gli occhi castani conservavano ancora la dolcezza con la quale aveva guardato alla donna, strappandola dalla noia e carezzandone l’anima con gentilezza.

Tutti ci chiedemmo come mai nessuno di noi l’aveva sentito, in quei giorni solitari, ululare alla luna.

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